LAVORO – Con “lavoro accessorio” si indica una formula di lavoro occasionale introdotta dalla Legge Biagi del 2003 ed abrogata nel 2017, dal decreto-legge n. 25 del 17 marzo (“Disposizioni urgenti per l'abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti”).
Il meccanismo del lavoro accessorio era piuttosto semplice: il datore di lavoro poteva commissionare una prestazione lavorativa di carattere occasionale che poteva retribuire per mezzi di voucher (o “buoni lavoro”) comprati presso i rivenditori autorizzati (INPS, tabaccherie e affini). Il lavoratore poteva poi incassare i voucher, dal valore lordo di 10 euro, attraverso i canali predisposti dalla normativa di riferimento; la differenza tra lordo e netto percepito dal lavoratore (2.50 euro) era costituita dalla somma di tre fattori:
Il contributo previdenziale, come si legge anche sul portale ufficiale dell’INPS, veniva versato “esclusivamente ai fini pensionistici, pertanto non fa maturare il diritto a prestazioni temporanee (malattia, maternità, disoccupazione, assegni familiari, ecc.)”.
La regolamentazione del lavoro accessorio prevedeva limiti ben precisi, sia dal punto di vista economico sia per quanto riguarda la tipologia di prestazione lavorativa e le categorie di lavoratori che potevano accedere alla formula. Come si legge sul portale specializzato avvocatoaccanto.com, un lavoratore non poteva ricevere più di 7.000 euro netti nell’arco di un anno civile (1 gennaio – 31 dicembre). Nel rapporto tra singolo datore di lavoro committente e lavoratore vigeva un ulteriore limite di 2.020 euro netti all’anno.
Il lavoro accessorio non poteva essere utilizzato in determinati settori e per specifiche tipologie di prestazione. In particolare era vietato il ricorso a questa formula per appalti relativi a opere e servizi; in aggiunta, il lavoro accessorio non poteva essere utilizzato se il dipendente aveva già un regolare contratto di lavoro con il committenze. Infine, l’utilizzo dei voucher era consentito anche ai committenti pubblici “nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno”.
Leggermente diverso era il discorso relativo al settore agricolo. Le aziende con un volume d’affari inferiore a 7.000 euro potevano utilizzare il lavoro accessorio per qualsiasi tipo di impiego e dipendente mentre mentre le aziende con volume di affare superiore erano autorizzate a ricorrere al lavoro accessorio solo per le mansioni stagionali (con l’ulteriore limitazione di poter pagare in voucher solo studenti e pensionati).
L’acquisto dei voucher non è più possibile a partire dal 18 marzo 2017; i buoni lavoro richiesti prima di questa data potevano essere utilizzato solo entro la fine dell’anno (31 dicembre). Una comunicazione dell’INPS spiega come i rimborsi delle somme versate entro il 17 marzo 2017 (e non utilizzate dal committente entro il termine del 31 dicembre dello stesso anno) potevano essere richiesti entro il 31 marzo del 2018, tramite il modulo Sc52.
Ciò nonostante, il lavoro accessorio non è sparito; “la disciplina normativa” – come spiega il sito dell’INPS – “del lavoro accessorio ha subito nel tempo numerose modifiche ed è stata integralmente sostituita dalla nuova riforma del mercato del lavoro introdotta dal "Jobs Act"”. Le novità introdotte nell’assetto normativo “hanno determinato il progressivo incremento dei limiti economici annuali entro i quali il lavoro accessorio può essere utilizzato e la progressiva estensione del campo di applicazione”. In sostanza, sono decaduti le precedenti limitazioni di utilizzo, facendo decadere la validità del concetto di occasionalità della prestazione. Ciò vuol dire che il lavoro accessorio può essere utilizzato secondo le nuove disposizioni normative per qualsiasi tipo di impiego e lavoratore.