Un gruppo di scienziati ha scoperto un nuovo gruppo di cellule cerebrali che potrebbero contribuire alla trasmissione di informazioni.
Come funziona la trasmissione delle informazioni nel cervello e come si spostano gli impulsi da lì al resto del corpo? Per farla semplice si può dire che nel nostro sistema nervoso sono presenti due gruppi distinti di cellule: i neuroni e le cellule gliali. I primi sono quelli che attraverso una rete di sinapsi trasmettono fattivamente gli impulsi elettrici, le seconde creano invece una struttura di supporto fisiologica per i primi. Tuttavia molti scienziati, per anni, si sono domandati se le cellule gliali non contribuissero anch’esse in qualche modo alla trasmissione di impulsi.
Secondo una nuova ricerca dell’IRCCS Santa Lucia e dell’Università di Roma Tor Vergata pubblicata sulla rivista scientifica Nature la risposta a questa domanda potrebbe essere: sì. Stando agli scienziati, infatti, un sottogruppo delle cellule gliali, gli astrociti, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nella trasmissione di informazioni rilasciando il neurotrasmettitore glutammato a una velocità compatibile con la rapida modulazione tipica della trasmissione sinaptica.
Ma cosa c’è di rivoluzionario in questa scoperta? Come accennato in precedenza questa non è la prima volta che i ricercatori si concentrano sulle caratteristiche specifiche delle cellule cerebrali al fine di chiarirne il funzionamento. Finora, però, le prove che gli astrociti potessero rilasciare neurotrasmettitori erano risultate controverse. Lo studio in questione, invece, ha fornito la prima prova chiara in seguito a lunghe analisi trascrittomiche e bioinformatiche di laboratorio.
In seguito ai nuovi test, invece, la risposta sembra chiara: “gli astrociti glutammatergici sono presenti in diverse regioni cerebrali nei topi e sono apparentemente conservati negli esseri umani“, ha dichiarato Ada Ledonne dell’Università Tor Vergata. In particolare li ritroviamo nelle aree coinvolte nella formazione dei ricordi e del controllo motorio.
A livello pratico tale scoperta potrebbe aprire nuove porte per lo sviluppo di terapie specifiche, ad esempio per quanto riguarda il morbo di Alzheimer o quello di Parkinson. Come? Mettendo a punto “trattamenti terapeutici mirati che potrebbero correggere i malfunzionamenti di un sottogruppo di cellule, lasciando inalterate le altre“, ha dichiarato il neurofisiologo Stefano Taverna.